Missionari nella preghiera
Primo incontro: “… Cos’è la preghiera”.
La preghiera ha come punto di partenza la sequela, come motore l’azione dello Spirito e come culmine l’offerta assoluta della vita al Gesù che si dona nella croce. Gli atteggiamenti oranti che tutto questo provoca mostrano che, per l’amante dell’ideale francescano, la preghiera non è soltanto qualche cosa di importante, ma qualche cosa di essenziale.
Primo momento:
Che cos’è la preghiera?
Sento sempre un certo disagio, una certa fatica, quando devo parlare della preghiera, perché mi pare che la preghiera sia una realtà di cui non si possa parlare: si può invitare a pregare, esortare, consigliare; la preghiera è qualcosa di così personale, di così intimo, di così nostro, che diventa difficile parlarne insieme, a meno che davvero il Signore non ci metta tutti in una atmosfera di preghiera.
Come affermano le costituzioni: «La preghiera è dono di Dio, esperienza della sua presenza in Cristo Gesù che, per la potenza del suo Spirito, ci rivela il mistero di Dio Amore e fa di noi dei veri adoratori del Padre» (Cost. n. 11).
Che cosa potrei dirvi, così familiarmente, su questo tema della preghiera?
Ho pensato di partire da alcune premesse, due brevi premesse teologiche fondamentali che voglio richiamare; cercherò poi di rispondere ad una domanda concreta: come aiutare noi ed altri a ravvivare nel nostro cuore la fiamma della preghiera, questa fiamma che Dio stesso accende ma che sta a noi alimentare in maniera giusta.
- La prima la ricavo dal Salmo 8:
«O Signore nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra! Sopra i cieli si innalza la tua magnificenza, con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli. Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu bai fissato, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?».
La preghiera è qualcosa di estremamente semplice, qualcosa che nasce dalla bocca e dal cuore del bambino. È la risposta immediata che ci sale dal cuore quando ci mettiamo di fronte alla verità dell’essere. Questo può avvenire in molti modi, forse in modi diversi per ciascuno: per qualcuno può essere un paesaggio di montagna, un momento di solitudine nel bosco, l’ascolto di una musica che ci fa dimenticare un po’ le realtà immediate, che ci distacca per un momento da noi stessi. Sono questi momenti di verità dell’essere, nei quali ci sentiamo un po’ come tratti fuori dalla schiavitù delle invadenze quotidiane, dalla schiavitù delle cose che ci sollecitano continuamente; facciamo un respiro più largo del solito, sentiamo qualcosa che ci si muove dentro, e allora in questi momenti di grazia naturale, in questi momenti felici nei quali ci sentiamo pienamente noi stessi, è molto facile, quasi istintivo, che si elevi una preghiera: «Mio Dio ti ringrazio», «Signore, quanto sei grande!».
Ciascuno di noi, credo, può sperimentare nella propria vita qualcuno di questi momenti. Forse in una serie di circostanze felici si è trovato ad esprimere questo riconoscimento di Dio, traendolo dal fondo del proprio essere: è la preghiera naturale, la preghiera dell’essere.
Ogni nostra preghiera, ogni nostra educazione alla preghiera parte da questo principio: l’uomo che vive a fondo l’autenticità delle proprie esperienze sente immediatamente, istintivamente l’esigenza di esprimersi attraverso una preghiera di lode, di ringraziamento, di offerta.
- Oltre questa verità, che è la preghiera dell’essere, c’è un’altra situazione da tener presente: è la preghiera dell’essere cristiano. Essa non è semplicemente la risposta mia alla realtà dell’essere che mi circonda, o alla sensazione di autenticità che provo dentro di me, ma è lo Spirito che prega in me.
Il testo fondamentale cui dobbiamo riferirci è la Lettera ai Romani, seconda parte del capitolo 8: lo Spirito prega in noi (Rm 8,14-27).
«Tutti quelli, infatti, che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio».
Vanno dunque tenute presenti queste due verità: «dalla bocca dei bambini e dei lattanti Signore ti sei fatto una lode» e quindi la preghiera è una realtà semplicissima, che sgorga quando si sono messe le premesse giuste, quando la persona si è posta davvero a suo agio di fronte alla realtà dell’essere, alla verità dell’essere, in situazioni particolarmente felici di distensione, di calma, di serenità. A questa verità ne segue però un’altra: non siamo noi come cristiani a pregare, è lo Spirito che prega in noi.
L’educazione alla preghiera consiste allora sia nel cercare di favorire quelle condizioni che mettono la persona in stato di autenticità, sia nel cercare dentro di noi la voce dello Spirito che prega, per dargli spazio, per dargli voce.
Senza questa premessa non c’è la preghiera cristiana: è lo Spirito dentro di noi che prega. E questa è la caratteristica propria, tipica della preghiera cristiana.
Uno dei più grandi esegeti di san Giovanni, il padre Mollat, si domandava un giorno che cosa caratterizzasse la preghiera cristiana, a differenza delle preghiere di tutte le altre religioni, di tutte le preghiere naturali che l’uomo può fare.
La risposta che dava era quella del capitolo quarto del Vangelo di Giovanni: «la preghiera in spirito e verità». Secondo il linguaggio giovanneo verità significa: Dio Padre che si rivela in Cristo. Ecco qui il nocciolo di ciò che caratterizza la preghiera cristiana, di ciò che la distingue dalla preghiera, anche se altissima, di altre religioni. Possiamo imparare moltissimo dalle preghiere di tutte le religioni, possiamo ricavare tante cose su questa elevazione dell’uomo verso Dio, ma lo specifico della preghiera cristiana è invece dono diretto di Dio, che ci manda lo Spirito, che ci dona di pregare nella verità, cioè nella rivelazione che il Padre fa di se stesso in Gesù.
È ciò che la liturgia attua quando, a conclusione di ogni preghiera, pronuncia la formula: «per Cristo nostro Signore, in unità con lo Spirito Santo».
Questa è la preghiera a cui educare ed educarci.
Non avremmo davvero educato né ci saremo educati alla preghiera se soltanto ci fossimo limitati a suscitare sentimenti di lode, di ammirazione, di riconoscenza, di domanda e se non avessimo inserito questa realtà nel ritmo dello Spirito che prega in noi.
La domanda: «Come aiutare e aiutarci a pregare?», diventa ora più specifica: «Come aiutare e aiutarci a scoprire dentro di noi i movimenti dello Spirito che ci conduce? Come aiutare e aiutarci a sentire, a discernere i movimenti dello Spirito di Cristo che è dentro di noi, lo Spirito che è il grande promotore di ogni nostro pregare?».
Come far si che «si alimenti in noi la passione per la gloria di Dio, la ricerca della sua volontà, l’ardore apostolico in una comunione sempre più profonda con Gesù, suo Figlio» (Cost. n. 11)?
Lasciandoci aiutare dalla Parola cerchiamo le prossime volte di formulare un itinerario di preghiera.
Secondo momento:
Le tre coordinate della preghiera
- L’incontro con se stessi
Per poter incontrare Dio devo prima di tutto incontrare me stesso, devo essere conscio di me stesso: ma normalmente non lo sono. Infatti se mi osservo scopro che i miei pensieri vagano qua e la, scopro di essere da qualche parte coi miei pensieri ma di non essere conscio di me stesso. Non ho alcun contatto con me stesso, i pensieri mi strappano da me stesso e mi conducono altrove. Non sono io a pensare, ma al contrario si pensa in me, i miei pensieri diventano indipendenti e coprono il mio vero io. Il primo atto della preghiera e che io devo entrare prima di tutto in contatto con me stesso.
Questo ci e sempre stato insegnato dai padri della chiesa e dai primi monaci. Cipriano di Cartagine scrive: «Come puoi pretendere che Dio ti ascolti, se tu non ascolti te stesso? Tu vuoi che Dio pensi a te, quando tu stesso non pensi a te». Se non sei conscio di te stesso, come puoi pretendere che Dio lo sia di te? Se io non sono a casa, anche Dio non può trovarmi, se volesse venire da me. Ascoltare se stessi significa innanzitutto ascoltare il proprio vero essere, entrare in contatto con se stessi, ma significa anche dare ascolto ai propri sentimenti e bisogni, a ciò che si desta in me. Ascoltare se stessi, entrare in contatto con se stessi e con i propri bisogni più intimi e per Cipriano la condizione necessaria affinché nella preghiera si entri in contatto con Dio.
La preghiera non e una pia fuga di fronte a se stessi, bensì un incontro sincero e spregiudicato con se stessi. Evagrio Ponti scrive così: «Se vuoi conoscere Dio, impara prima a conoscere te stesso». Questa non e una psicologizzazione della fede, bensì una condizione necessaria della preghiera. Se mi do subito alla fuga in parole o sentimenti pii, la preghiera non mi conduce a Dio, ma soltanto negli ampi spazi della mia fantasia. Prima devo ascoltare dentro di me con tutta onesta. Nell’incontro con Dio devo innanzitutto incontrare me stesso. E noi non possiamo dire cosa avvenga per primo, l’incontro con se stessi come condizione per l’incontro con Dio o l’incontro con Dio come condizione per l’incontro con se stessi. Entrambe le cose si presuppongono e si rafforzano a vicenda.
Incontrare me stesso non significa tuttavia ruotare continuamente intorno a me stesso e ai miei problemi o analizzare la mia situazione psichica, bensì addentrarsi nella mia vera identità, trovare la via che conduce al mio io, al mio vero nucleo di persona.
L’io significa: sono chiamato da Dio col mio nome, con un nome inconfondibile. Sono una parola che Dio dice solo dentro di me. Il mio essere non consiste nella mia bravura, nel mio sapere e nemmeno nel mio sentire; esso consiste nella parola che Dio dice solo dentro di me e che in questa mondo può essere percepita solo dentro di me e attraverso di me. Quindi incontrare se stessi significa avere un’idea di questa unica parola di Dio in me. Dio ha già parlato attraverso la mia esistenza, ha detto la sua parola in me. Il pregare come incontrare se stessi significa incontrare Dio nel suo mistero più profondo, quel Dio che si è rivolto a me e che si e espresso dentro di me.
- L’incontro con Dio
La seconda fase della preghiera e l’incontro con Dio. Spesso crediamo di conoscere Dio già da lungo tempo. Infatti preghiamo rivolgendoci a lui già da molto tempo. Abbiamo sentito abbastanza su di lui fino ad ora e possiamo raffigurarci chi sia. Ma corrisponde al vero Dio ciò che noi sappiamo di Dio? Oppure proiettiamo in Dio soltanto i nostri desideri e le nostre nostalgie? Le immagini che abbiamo di Dio nascono solo dalla nostra educazione o dalle fantasie del nostro cuore? Da una parte abbiamo bisogno di immagini per raffigurarci Dio e per poterlo incontrare. Ma d’altra parte dobbiamo continuamente superare queste immagini e dirigerci verso il vero Dio. Non dobbiamo raffigurarci Dio come un essere simpatico, come l’amico al quale diamo una pacca sulla spalla. È il Dio infinito, il creatore del mondo. Possiamo pensare Dio solo nella dialettica degli opposti. Dio e il creatore infinito, ma e anche colui che ora si occupa di me e mi guarda con amore. Dio è colui che ha creato l’immenso universo, ma e anche dentro di me e si spinge nel mio profondo più di quanto io stesso non riesca a fare. Dio e il Padre misericordioso che mi accoglie col suo amore, ma e anche il Signore di fronte al quale non mi resta altro che prostrarmi umilmente. Conosco bene Dio perché si e rivelato a me e lo incontro dentro di me, ma allo stesso tempo e colui che è totalmente altro, indisponibile e incomprensibile, colui che mette sempre in dubbio tutti i nostri principi teologici. Se vogliamo veramente incontrare questo Dio e non più soltanto i principi della nostra teologia, allora e possibile che ci accada qualcosa di simile a quanta successe a Giobbe, che dopo le sue lotte con Dio deve riconoscere quanto segue: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto. Perciò mi ricredo e mi pento sulla polvere e sulla cenere» (Gb 42,5-6).
Le immagini che ci facciamo di Dio sono come finestre attraverso le quali guardiamo nella giusta direzione. Ma Dio si trova al di la di queste immagini, non si può definire attraverso queste immagini. Egli e sempre totalmente «altro», inesplicabile, e il mistero per antonomasia. Quando incominciamo a pregare, ci giova penetrare il mistero di Dio con l’ascolto, superare tutte le immagini che ci siamo fatti di lui e avere un’idea del Dio che e sempre più grande. Anche in questa caso non giungeremo al punto di poter definire Dio, ma diventeremo più sensibili al mistero del Dio che vogliamo incontrare nella preghiera.
Oggi non possiamo più essere tanto ingenui da parlare di Dio come si faceva nel passato. Sappiamo che anche la teologia ha parlato della morte di Dio. Rivolgere lo sguardo verso Dio significa sopportare la sua assenza e tuttavia credere anche alla sua vicinanza, credere di essere avvolti dalla sua presenza, che è amore e salvezza, e credere che egli sia nel nostro cuore. Per noi incontrare Dio significa aver attraversato i dubbi del nostro tempo e, dopo averli oltrepassati, avere fede nel Dio che ci e apparso in Gesù Cristo e che ha rivelato il suo cuore in Cristo.
Ed è un cuore umana quello che compare in Cristo, un cuore che possiamo comprendere nel mezzo dell’incomprensibilità di questa mondo. Il problema di Dio, che la modernità ha posto in modo più radicale che nel passato, potrebbe dunque renderci più sensibili, il che significa poter incontrare questo Dio misterioso, questo Padre di Gesù Cristo.
I dubbi che abbiamo, quando cerchiamo il vero Dio, ci mantengono vivi, ci impediscono di essere soddisfatti del nostro rapporto con Dio in maniera troppo affrettata. Dobbiamo continuamente tornare ad addentrarci a tentoni nel mistero di Dio.
- Il dialogo con Dio
La terza fase consiste in ciò che noi di norma definiamo preghiera: parlare con Dio. Alcuni si domandano subito che cosa debbano dire a Dio, visto che lui sa già sempre tutto. Dio sa certamente tutto e non ha bisogno della mia preghiera, ma io ne ho bisogno. Provo giovamento nel potermi rivolgere a Dio comunicandogli i miei bisogni più intimi e le mie idee. Ci possiamo immaginare che cosa vorrebbe dire potersi rivolgere solo agli uomini e non a Dio, all’origine prima di tutto l’essere. In definitiva sarebbe impossibile giungere alla comprensione di noi stessi. Infatti gli uomini non possono fornire risposte alle nostre domande ultime. Ci possono donare un poco di comprensione e di protezione, ma ci lascerebbero soli con le nostre idee e le nostre nostalgie più intime. Così vivremmo in un mondo freddo e incomprensibile.
La preghiera ci fornisce, nel mezzo della nostra esistenza estraniata e poco confortevole, la sensazione di protezione, di venir compresi e di essere accettati. Con le nostre domande dobbiamo rivolgerci all’unico che sa fornire delle risposte. Ad esempio, nessun uomo può rispondere alla domanda sulla sofferenza e la morte degli innocenti. Però noi non viviamo nel regno dell’assurdo: possiamo invece rivolgerci a Dio, l’origine prima del mondo. Ma che cosa devo dire a Dio? Gli devo dire tutto ciò che affiora dentro di me. Devo descrivergli la mia vita come essa e nella realtà. A Dio posso raccontare degli incontri con gli altri, di ciò di cui mi occupo al momento, dei problemi e delle delusioni, delle gioie e degli avvenimenti piacevoli, delle paure, delle preoccupazioni e della mia speranza. La preghiera non deve essere pia, deve solo essere sincera, deve illustrare a Dio la mia vita come essa è effettivamente. A questa fine può essere utile tradurre ciò che mi viene in mente in parole, siano esse interiori oppure concreti messaggi verbali.
È un buon esercizio costringersi a parlare ad alta voce con Dio per mezzora. Allora posso cominciare con la domanda: Dio, che cosa pensi di me veramente? Cosa dici di me e di ciò che compio? Oppure potrei domandarmi che cosa dovrei dire a questo Dio affinché ciò che dico corrisponda alla verità di me. In questa caso mi devo costringere a continuare a parlare per mezzora. Se Dio si allontana da me, ne parlo con lui. Se mi arrabbio, glielo dico. E se non mi viene in mente più niente, parlo con Dio di quante altre cose mi stiano più a cuore di lui. Una preghiera di questa tipo non e certo un esercizio di tutti i giorni, altrimenti diventerebbe un chiacchierio continuo. Di tanto in tanto, e soprattutto quando dentro di me regna la confusione o il vuoto, è un valido aiuto.
Un’altra possibilità consiste semplicemente nel sedersi di fronte a Dio e lasciare che sorga in noi ciò che affiora spontaneamente. In questa caso non devo cercare le parole per descrivere ciò che succede in me. Infatti per certe idee e per certi sentimenti mi mancano le parole adatte. Talvolta ho una sensazione diffusa senza poterla formulare. Tuttavia quando siedo di fronte a Dio e lo guardo, affiora dentro di me spontaneamente ciò che e importante. In modo particolare, si desta ciò che non va.
Evagrio dice che non esistono preghiere degne di questa nome, nelle quali io non mi imbatta anche nei miei errori. Non devo ricercare i miei errori e i miei peccati. Guardando Dio scopro io stesso che cosa non andava. La preghiera e dunque il luogo dove mi trovo di fronte a Dio senza protezioni, dove non esiste ostacolo tra me e lui: non esistono parole o preghiere preformulate. Sono piuttosto io che porgo me stesso. Questo mi costringe alla verità.
Nel dramma La scarpina di raso Paul Claudel risponde per bocca di Dona Proeza alla domanda «Con che cosa devo pregare?» come segue: «Tutto ciò che ci manca, ci e utile per la preghiera. Il santo prega con la sua speranza, il peccatore con il suo peccato». Quando preghiamo Dio dobbiamo dunque porgergli ciò che ci manca, la nostra nostalgia, la nostra insufficienza nei nostri confronti e nei confronti della nostra vita. E dobbiamo porgere a Dio i nostri peccati, i nostri lati oscuri. La preghiera può rendere liberi solo se permetto a Dio di guardare anche nei miei abissi, in ciò che reprimo ed escludo dalla mia vita, nelle tendenze assassine del mio cuore, nella falsità e nell’oscurità, nelle passioni dell’anima, nei bisogni e nei desideri che giacciono al di sotto della superficie. Nella preghiera sono libero di esprimere la mia paura e la mia disperazione, di mostrare a Dio tutti gli stati d’animo e le sensazioni che io stesso non riesco a spiegarmi. Mi e concesso di mettere a nudo ciò che ho cercato di reprimere, ciò che io stesso non volevo accettare perché intaccava il mio onore e distruggeva l’immagine idealizzata che inconsciamente ho di me stesso. Di fronte a Dio devo svelare tutto, senza dovermi giustificare o scusare, senza nemmeno esprimere un giudizio al riguardo. Devo aprire i miei abissi, affinché la luce di Dio li possa illuminare e quindi faccia in modo che io vi possa abitare. Solo se porgo tutto quanto a Dio la preghiera mi libererà. Non debbo aver paura di nulla di ciò che e dentro di me. Può essere qualsiasi cosa, ma deve essere inserita nel rapporto con Dio. Ciò che escludo dall’incontro con Dio mancherà alla mia vitalità e verrà escluso anche dalla mia vita. Mi aggredirà alle spalle e mi danneggerà invece di rendere più intenso il mio rapporto con Dio.
Per molti pregare e chiedere sono la stessa cosa. Questa e una visione certamente troppo unilaterale. Ma tuttavia anche il chiedere e una parte essenziale dell’incontro con Dio. Posso chiedere a Dio tutto ciò che ritengo sia importante. Chiedere significa prima di tutto ammettere i propri bisogni e i propri desideri, dire a Dio che cosa mi manca e che cosa vorrei. Bisogni e desideri sono una mia parte essenziale, e si sarebbe superbi se li si ignorasse o li si escludesse dall’incontro con Dio. Di fronte a Dio sono libero di dire qualsiasi cosa, anche i desideri e i bisogni, i problemi e le difficoltà che ho. E posso chiedere a Dio di aiutarmi o di aiutare le persone che mi stanno a cuore. Pregandolo confesso con tutta umiltà di aver bisogno di aiuto e che non riesco senza determinate condizioni. Confesso pure che Dio soltanto non mi è sufficiente: ho bisogno del suo aiuto e per me sono importanti i suoi doni e non solo l’incontro con lui. Chiedere e quindi non solo un rassegnarsi alla volontà di Dio, ma soprattutto e in primo luogo mendicare aiuto. Mi posso fidare del fatto che Dio mi comprende e che prende sul serio i miei desideri. E tuttavia allo stesso tempo, mentre gli rivolgo le mie richieste, mi fa dubitare di me stesso. Quando gli dico i miei desideri in tutta liberta ne prendo già le distanze. Li espongo a Dio e mi lascio mettere in questione da lui. Chiedere diventa una lotta con Dio, alla fine della quale sta la rassegnazione alla volontà di Dio. Ma non mi devo subito rassegnare alla volontà di Dio; posso invece dirgli tutte le mie idee e i miei desideri. Gesù stesso ci invita a fare richieste e promette che ci dara ascolto: «E tutto quanto chiederete nel mio nome lo farò, affinché il Padre sia glorificato nel Figlio» (Gv 14,13). Nella parabola del giudice senza Dio e della vedova ci incoraggia a pregare senza posa e a batterci per i nostri diritti. E promette che Dio ci aiuterà: «E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che lo invocano giorno e notte? Tarderà ad aiutarli? Vi dico che farà loro giustizia prontamente» (Lc 18,7 -8). Abbiamo dunque il diritto alla vita e dobbiamo batterci per esso anche di fronte a Dio.
Tuttavia non dobbiamo immaginarci l’adempimento delle nostre richieste in modo troppo esteriore. Dio può certamente intervenire anche dall’esterno e cambiare le condizioni esterne. Dobbiamo pregare avendo fiducia che Dio intervenga veramente, ma allo stesso tempo dobbiamo anche comprendere che la preghiera, intesa come incontro con Dio, può essere già essa stessa il soddisfacimento delle nostre richieste. Nella preghiera vengo a conoscenza del diritto alla vita ed in essa nessun nemico può più esercitare il suo potere su di me. Attraverso la preghiera sento in Dio una profonda salvezza, più forte di tutto ciò che potrebbe causare impedimento alla mia vita. Nella preghiera sento di non essere abbandonato a me stesso, come la vedova che non appartiene a un gruppo e non può rivolgersi a nessuno, perché anche il giudice non ha alcun interesse ad aiutarla. Nella preghiera vengo a conoscenza della protezione di Dio. Ciò sottrae alle condizioni esterne il potere che esse hanno su di me. Ammesso che Dio possa cambiare anche le condizioni esterne, in ogni preghiera posso comunque rendermi conto di un cambiamento della mia disposizione. Chiedere implica sempre entrambe le cose: chiedere a Dio di fare qualcosa e di intervenire, di cambiare le condizioni esterne; e sentire un cambiamento al proprio interno quando si prega, quando si esprimono richieste con assoluta fiducia, avere la sensazione che in effetti nulla mi può nuocere e che, qualsiasi cosa possa accadere, sono nelle mani di Dio.
Il dialogo con Dio può essere ancora qualcosa di diverso: il luogo dell’intimità nel quale comunico a Dio tutti gli aneliti, le idee, i desideri e le ferite presenti nel mio cuore. Avere un rapporto di intimità con Dio significa esprimergli tutti i sentimenti che ho dentro di me e che spesso risultano nascosti perché io stesso ne ho paura. Allora forse affiorano sentimenti decisamente infantili, come la nostalgia di protezione e di amore, sentimenti che nascondo a me stesso perché mi causano problemi e perché, essendo ormai adulto, credo di averli superati. La preghiera vuole darmi il coraggio di esprimere proprio tutto e di non nascondere nulla, le mie nostalgie più profonde e tutti i difetti della mia vita, il mio amore e le commozioni del mio cuore.